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È davvero importante il modo in cui parliamo del Coronavirus?

Come ha scritto Claudio Mazzarini nel suo articolo In margine a un’epidemia: risvolti linguistici di un virus, le parole sono sempre importanti perché “attraverso la lingua gli uomini prendono coscienza dei fatti, li soppesano, li giudicano, ne traggono conseguenze.”. Di fronte al Coronavirus, stiamo usando le parole nel modo giusto?

“Choose your words”. Photo by Brett Jordan on Unsplash.

Da gennaio tutto sembra evolversi a una velocità sconcertante. Tutti parlano della pandemia. Tutti parlano di un mondo nuovo. Siamo sommersi da parole nuove, da parole incerte e da parole vecchie cariche di sfumature nuove. E anche se ci siamo abituati ad ascoltarle e a pronunciarle, spesso i concetti che portano con sé restano lontani.

Di fondo, vi è una spinta quasi irrinunciabile a informarsi continuamente e a comunicare in modo talvolta ossessivo quello che pensiamo e proviamo.

D’altra parte, può coglierci un certo senso di fastidio o di repulsione nei confronti di un discorso che si è fatto pervasivo e onnipresente; dal quale non ci si può sottrarre. Un discorso che troppo spesso non è stato costruito in modo adeguato, neanche da chi avrebbe dovuto fare chiarezza. O da chi ha usato la retorica là dove serviva invece che la paura fosse razionalizzata e incanalata in una spinta positiva al cambiamento, e non alimentata e trasformata in panico.

L’infodemia da Coronavirus: parole che confondono

La parola infodemic (infodemia) nasce nel 2003, durante un’epidemia di SARS. L’ha coniata David Rothkopf per un articolo pubblicato sul Washington Post. Così – da allora – si definisce la circolazione e la diffusione rapida e incontrollabile di una quantità eccessiva di informazioni (notizie vere, incerte, o totalmente prive di fondamento) in relazione a un’emergenza, nel mezzo della quale è difficile orientarsi.

Photo by Giulia May on Unsplash

Il 15 febbraio 2020, il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha dichiarato:

non stiamo solo combattendo un’epidemia; stiamo combattendo un’infodemia. Le fake news si diffondono più velocemente e più facilmente di questo Coronavirus e sono ugualmente pericolose.

Secondo il Centro di monitoraggio della disinformazione relativa al coronavirus di Newsguard, fino ad ora sono 201 i siti che hanno pubblicato affermazioni false o fuorvianti su Covid-19 in Italia, Germania, Regno Unito, Francia e Stati Uniti. E il numero è in crescita. Molte di queste bufale si sono diffuse in modo virale attraverso il web e i social media. Per questa ragione, Newsguard ha deciso di pubblicare uno speciale in cui vengono ricostruite, analizzate e sfatate le 13 bufale più diffuse.

L’epidemia di Covid-19 ci sta mettendo di fronte a un mondo fatto di iper-comunicazione, in cui spesso le notizie vengono consumate in modo compulsivo e superficiale, sempre alla ricerca di qualcosa di sconvolgente; di una narrazione avvincente; di una scarica emotiva da condividere – non importa se a scapito della verità e della profondità.

Photo by Tengyart on Unsplash

Parole che salvano: contro lo stigma sociale

Nel mezzo di una pandemia, è facile cadere nel sovraccarico di notizie, nella confusione, nel panico e nelle discriminazioni. A partire dal modo in cui si definisce la malattia. Come ha dichiarato a febbraio il direttore generale dell’OMS:

Dovevamo trovare un nome che non si riferisse a una zona geografica, a un animale a un individuo o a un gruppo di persone e che fosse anche pronunciabile e riferito alla malattia […] Avere un nome significa evitare altri nomi che possano essere inaccurati o stigmatizzanti.

Photo by Martin Sanchez on Unsplash

E infatti COVID-19 è l’acronimo di COronaVIrus Disease – 2019. Non è un’etichetta. Non genera stereotipi. È semplicemente una definizione. Per prevenire e affrontare lo stigma sociale, IFRC, UNICEF e WHO hanno pubblicato un documento, tradotto in italiano dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Il documento parte dal presupposto che una malattia scatena comprensibilmente ansia e paura dell’ignoto, e che è facile associare questa paura agli altri. Il modo con cui parliamo di Covid-19 è fondamentale “per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci per aiutare a combattere la malattia e per impedire di alimentare la paura e lo stigma”.

Il coronavirus e le parole dell’emotività

Il linguaggio serve a comprendere e creare narrazioni della realtà. L’uso di una parola piuttosto che di un’altra può rendere un discorso chiaro e nitido, oppure fumoso e impreciso. Allo stesso tempo, la scelta di adottare un certo tipo di comunicazione può portare a descrivere un evento in modo razionale, oppure far leva sull’emotività, e drammatizzarlo o addirittura distorcerlo.

In La peste, il terremoto e altre metafore. Il coronavirus nel discorso della stampa italiana, Stefania Spina ha analizzato il linguaggio di 6685 articoli pubblicati nell’arco di 30 giorni da sei quotidiani italiani. Alcune testate hanno scelto un lessico forte, d’impatto e decisamente eccessivo; altre hanno semplicemente raccontato ciò che stava accadendo.

Photo by Charles Deluvio on Unsplash

Continuare a incontrare determinate parole nel discorso sul Coronavirus influenza profondamente la nostra percezione della pandemia e delle azioni che è possibile intraprendere.

Metafore di guerra

L’epidemia di Covid-19 è stata paragonata alla peste, ai terremoti, all’apocalisse, e anche e soprattutto alla guerra. Col rischio di caricare malati, medici e infermieri di aspettative insensate.

Lo spiega molto bene Daniele Cassandro. In Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore, riprendendo Susan Sontag, scrive:

Liberarsi da una malattia, superarla per tornare a vivere tra i sani, non è una questione di valore militare, di forza, di costanza, di eroismo del singolo; è una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie e anche, purtroppo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra e della sconfitta a una malattia significa caricare il malato di sensi di colpa e, dice Sontag, ostacolarlo nel suo percorso di guarigione.

Similmente, Annamaria Testa, nel suo Smettiamo di dire che è una guerra, ci ricorda che medici e infermieri

non sono soldati da mandare in battaglia, pronti a compiere un sacrificio. Usare il frame della guerra per implicare, insieme all’eroismo, l’ineluttabilità del sacrificio è disonesto e indegno. Non è una guerra ed è pericoloso pensare che lo sia perché in questa cornice risultano legittimate derive autoritarie. Non è una guerra perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare.

Una metafora come quella della guerra diventa terribilmente pericolosa se finisce per stigmatizzare una vittima, o per giustificare una morte che si sarebbe potuta evitare. È pericolosa se riafferma lo status quo, senza mettere in discussione quello che non ha funzionato; senza riflettere sulle responsabilità e sui cambiamenti che è necessario attuare.

Guerra. Photo by Duncan Kidd on Unsplash.

Khalifa Abo Khraisse, a conclusione del suo (bellissimo) articolo Per i libici aprile è un mese crudele, scrive:

Sono nato e cresciuto in un paese dove i diritti umani sono uno strano concetto. Conosco l’odore della morte, ancora oggi lotto contro la stretta che mi prende allo stomaco e mi sforzo di non vomitare ogni volta che ci ripenso. E come molti altri libici mi sono trovato sotto il fuoco incrociato, mi sono fermato ogni giorno ai posti di blocco con gli occhi fissi sulla canna di un fucile e niente che mi separasse dalla morte se non lo scatto di un dito. Sono stato costretto a restare chiuso in casa per settimane, parecchie volte all’anno, senz’acqua né elettricità e ho passato ore a sentire il pavimento tremare e le finestre aprirsi di schianto dopo un’esplosione vicina. So cos’è la paura, so cos’è il dolore e, fidatevi di me, sopra ogni altra cosa so cos’è la guerra. E tuttavia se qualcuno, per esempio un medico a Bergamo, usa la parola guerra per descrivere la sua lotta contro la pandemia, rispetterò e comprenderò la sua metafora. Quando i medici sono costretti ad applicare modalità di triage da tempo di guerra hanno il diritto di chiamarla guerra.

Photo by Adam Nieścioruk on Unsplash

Chi vive una situazione di emergenza, senza che gli siano forniti gli strumenti necessari per affrontarla al meglio, viene costretto a comportarsi come se fosse nel mezzo di una guerra. Non si tratta di trasformare medici, infermieri e noi tutti in vittime o eroi di guerra, ma di metterci nelle condizioni di fare il nostro lavoro e di vivere la nostra vita in sicurezza. Sarebbe ingiusto affermare che tutto quello che è accaduto e che sta accadendo doveva per forza andare proprio così.

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